Le microplastiche nell’ambiente marino

Quando si parla di microplastiche, purtroppo a volte le buone intenzioni non sono supportate da basi scientifiche, e si fa molta confusione su cosa siano realmente le microplastiche e su come esse possano essere identificate e analizzate in maniera efficace e utile allo sviluppo delle politiche ambientali.

Nonostante il termine, per microplastiche si intendono tutte quelle particelle di materiale plastico di dimensioni inferiore ai 5 mm, particelle costituite per lo più da carbonio, idrogeno e ossigeno, talvolta azoto (es: nylon e altre poliammidi), cloro (PVC), fluoro (teflon, PTFE), zolfo, ma anche da elementi provenienti da additivi inorganici presenti in minore quantità.

I detriti polimerici sono presenti nel suolo, nell’idrosfera e nell’atmosfera e la maggior parte finisce, trasportata dalle acque dolci, negli oceani. Le analisi quantitative, qualitative ed eco-tossicologiche, basate su metodi analitici, fisici e chimici, rappresentano ancora ad oggi una sfida, principalmente a causa della complessità delle matrici in cui le microplastiche vengono rinvenute e successivamente analizzate.

Sebbene al microscopio ottico i campioni vengano elaborati facilmente e velocemente, le frazioni con dimensioni al di sotto del limite di risoluzione strumentale potrebbero essere omesse. Inoltre, le microplastiche potrebbero essere facilmente confuse con biofilm, sabbia, fibre di vetro, particelle di carbonato di calcio, micro-frammenti di guscio, diatomee o di crostacei. Per caratterizzare qualitativamente un campione eterogeneo si può ricorrere alla spettroscopia all’infrarosso (FTIR) e Raman oppure alla gascromatografia accoppiata con spettrometria di massa (GC-MS). Queste tecniche permettono di distinguere i diversi polimeri di cui sono costituite le microplastiche, ma d’altro canto non forniscono informazioni sulla morfologia della superficie dei frammenti, necessarie ad esempio per studiare i meccanismi di alterazione della plastica da parte degli agenti atmosferici. Le tecniche spettroscopiche, accoppiate alla microscopia ottica, risentono inoltre dei medesimi limiti di risoluzione, che escludono inevitabilmente dall’analisi le nanoplastiche. In questo contesto l’analisi SEM-EDS, benché spesso sottovalutata, rappresenta un approccio molto promettente, poiché permette di caratterizzare diversi campioni senza il bisogno di complicate tecniche preparative. Le immagini ad alta risoluzione e ad alto ingrandimento acquisite al SEM possono fornire informazioni sulla morfologia, sullo stato di invecchiamento e sull’origine dei campioni esaminati. Un’immagine ottenuta con il detector degli elettroni secondari (SE) aiuta a riconoscere la natura degli oggetti, e ad escludere ad esempio avanzi di pesce o parti di conchiglie. Il detector di elettroni retrodiffusi (BSE) fornisce invece informazioni sulla topografia e sulla composizione chimica del campione. Infine, il rilevatore di raggi X (EDS) consente una rapida analisi elementare delle particelle, molto utile per discriminare tra particelle di origine organica (ricche di calcio e magnesio), particelle inorganiche (minerali, sali) e le microplastiche.

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